anno, vengono, qualche volta si fermano... ", come le nuvole cantate da Fabrizio De André e che introducono a "Novecento": la foto di quello che siamo diventati nel XX secolo. Un eterno, inarrestabile, fluire di donne e uomini, speranze, storie, tragedie; a volte in una direzione, a volte in quella opposta ma sempre mossi dalle stesse due forze: miseria o violenza. Spesso tutte e due insieme.
Oggi da noi sono di più quelli che arrivano. Spesso dai luoghi più improbabili, come i diciotto ragazzi dello Zambia che, vestito il saio francescano, vivono a Farnese, dove hanno ripopolato il convento di San Rocco, sotto la guida di un padre guardiano... coreano. Gli stranieri residenti oggi da noi sono un'ottantina: il quattro e mezzo per cento della popolazione; provenienti da tanti paesi, quasi sempre in grandi difficoltà economiche. Una ventina i macedoni impiegati nell'industria boschiva, diverse badanti rumene e ucraine, e poi capoverdiani, marocchini, nigeriani, brasiliani, colombiani, dominicani, filippini ed indiani: un campione umano di tutti i continenti. Nel 1990 erano 11 e rappresentavano lo 0,6 per cento. Cifre modeste in valore assoluto, ma pur sempre indice di una crescita del 750% in 15 anni!
Quando la povertà era tanta anche in casa nostra, i flussi immigratori erano su scala nazionale. Per Farnese, che è ancora oggi un paese prevalentemente agricolo, le vicende di questo settore determinarono i flussi in arrivo ed in partenza. Due principalmente le direttrici che portarono immigrati. Nel secondo dopoguerra dal Casentino si trasferirono numerose famiglie di tagliatori e di carbonai che dalle montagne dell'appennino toscano venivano nei nostri boschi, impiegati in quello che era ancora una indispensabile risorsa energetica. Interi nuclei familiari si spostarono dai paesi della provincia aretina: Castel San Nicolò, Montemignaio, Poppi.... ed hanno dato origini a discendenze farnesane di Bassi, Bettini, Burla, Cecconi, Ciapetti, Martini, Taverni, Secchi Seghi. Su quelle montagne la terra, poca ed avara, consentiva a malapena di raccogliere un poco di grano che insieme ad una grande quantità di castagne costituiva l'unica fonte di un magro sostentamento. Era quindi indispensabile integrare le scarse risorse con altre attività lontane da casa. Si specializzò allora la figura del "capomacchia", che si recava in quei paesi di montagna per assoldare tagliatori e carbonai, contrattando le condizioni di lavoro ed il compenso. Fu per alcuni anni un lavoro stagionale. I casentinesi arrivavano verso la fine di novembre ed il loro soggiorno durava fino alla fine di giugno quando, terminata la "stagione", tornavano alle famiglie con i guadagni di un lavoro tanto sacrificato ma così necessario da farli tornare l'anno successivo. Col tempo i trasferimenti stagionali divennero definitivi e dal '46 al '52 alcune decine di persone si stabilirono a Farnese.
|