LO SCONTRO A FARNESE FRA GARIBALDINI E ZUAVI PONTIFICI

(19 OTTOBRE 1867)


Vi morirono anche tre massetani: Ettore Comparini, Rocco Grassini e Natale Capannoli
Versioni contrastanti circa l'uccisione di un frate cappuccino e il ferimento di un suo confratello

di Alfio Cavoli

N

el 1867, al tentativo di liberare Roma partecipano anche numerosi patrioti toscani. Nicola Guerrazzi di Follonica classe 1836, che aveva combattuto in varie campagne d'Italia guadagnandosi la stima e l'amicizia degli uomini più rappresentativi della democrazia nazionale, verso i primi del mese di ottobre viene incaricato di raggiungere Acerbi nei pressi di Acquapendente con duecento maremmani.
Anche una quarantina di giovani di Massa Marittima si arruolano con entusiasmo e la sera del giorno 11, dopo essersi radunati sulla via del cimitero, lasciano la loro cittadina ancora in festa per la ricorrenza patronale di San Cerbone.
In località "Capanne Vecchie", poco distante dall'abitato, incontrano la colonna livornese comandata da Jacopo Sgarallino e, insieme, giungono a Grosseto la sera successiva.
Ripresa la marcia, dopo un breve cammino, fanno sosta - superata Santa Maria di Rispescia - nel podere "Valle Maggiore" di Benedetto Ponticelli, dove il 14 vengono raggiunti da un'ottantina di volontari provenienti da Campiglia, Scarlino, Gavorrano e Caldana.
Qui si provvede all'assegnazione delle armi; ma i fucili che si possono distribuire, per giunta "incompleti", sono soltanto cinquantotto. Scarse anche le munizioni.
La mattina dei 15, la colonna - ora al completo - muove alla volta dell'Albegna. Presso il fiume sono ad attenderla i medici Apolloni, Mazzoni e Pini, arrivati appositamente da Pisa. Al Guerrazzi viene conferita la nomina di capitano.
L'indomani, guadato il corso d'acqua verso le otto dei mattino, i patrioti percorrono la pianura di Marsiglana; quindi, attraverso intricate boscaglie, affrontano la faticosa ascesa delle colline mancianesi. Quando giungono a Poggio Fuoco è già notte fonda.
Vanno oltre, fino alla fattoria del Fabbrini, non lontana dalla Campigliola. Una caprareccia, dopo che hanno consumato una frugale zuppa di fagioli e un liquore fatto venire da Manciano, li accoglie per poche ore di sonno.
Il giorno successivo, sull'imbrunire, entrano nel territorio dello Stato Pontificio, raggiungono la sponda destra del Fiora e trovano asilo in alcune porcarecce, nelle quali i mandriani allestiscono un minestrone così disgustoso che il dottor Apolloni definirà "antigienico".
il 17 ottobre, sul far del'alba, al termine di una breve discussione sulle strategie da adottare, i capi decidono di guadare il Fiora, nonostante che l'esploratore inviato la sera precedente a verificare la situazione, non abbia fatto ritorno.

Seguendo il consiglio di un pastore, i garibaldini attraversano il fiume nei pressi dei ruderi del ponte di San Pietro; poi, accompagnati da un contadino, giungono nelle vicinanze di Farnese, dove fanno il loro ingresso quando hanno la certezza che non vi sono in giro soldati papalini.
Ed eccoli al convento dei francescani. Nel racconto dei medico Apolloni, riportato da Gaetano Badii nel suo volume "Massa Marittima (La Brescia Maremmana) nella storia dei Risorgimento italiano e l'opera del Dottor Apollonio Apolloni ufficiale garibaldino" (1912), i frati li accolgono con grande cordialità (tutti ilari, tutti giulivi, tutti compassionevoli per le nostre fatiche...") e sembra che a quei pacifici religiosi non venga torto nemmeno un capello.
Ma questa è la versione dei fatti toscana e garibaldina. Sentiamo, invece, quella laziale e papalina. Secondo Ugolino Giuseppe Ferranti ("La Tuscia fisica, etrusca, storica, artistica, folkloristica"), in base alle ricerche d'archivio effettuate da Vittoria Bernabei, le cose si sarebbero svolte in maniera assai diversa.
Cosi: i garibaldini (in quelle contrade chiamati Diavoli Rossi) costringono i frati ad aprire il convento. Il quarantottenne, fra Pietro da Montamaro, portinaio, appena dischiuso l'usciolo che immette nell'orto, viene ammazzato con tre colpi di fucile in pieno petto; un altro frate, Clememe dal Poggio si busca un'archibugiata mentre sta per entrare nel convento con un pesante fascio di legna sulle spalle. (Secondo Eraclio Stendardi - "Ischia di Castro - Memorie storiche", 1969 - anche lui viene ucciso).
Il gravissimo episodio suscita perfino le ire di uno dei medici garibaldini (il Mazzoni? Il Pini?) che si precipita nei corridoi dei cenobio, minacciando, con la rivoltella in pugno, di punire severamente gli autori del misfatto. Non solo, ma si prodiga subito nella cura del ferito, esprimendo ai confratelli parole di conforto.
Per giustificare l'efferata azione compiuta, i garibaldini accuseranno i due religiosi di aver fatto fuoco contro di loro, come affermerà anche il massetano Antonio Ancilli, allora ventunenne, in un suo manoscritto, un brano del quale è

riportato nel volume dei Badii.
Considerando, tuttavia, anche il sospetto silenzio dei dottor Apolloni su questa tragica vicenda, c'è da pensare che la verità sta dalla parte dei frati. Dei quali, però - poiché sono storicamente certi l'uccisione di uno di loro e il ferimento di un altro - non si spiega il contegno sereno e tranquillo descritto dal medico di Massa Marittima, originario di Montelaterone sul Monte Amiata.
"Se abbracci non vi furono fra noi e il fraticello - scrive l'Apolloni nel suo memoriale - vi furono però diluvi di buone parole e scherma di finte gentilezze. Lo richiedemmo di un bicchiere d'acqua ma il frate assentandosi per pochi istanti ricomparve con un fiasco di vino ed il padre superiore per giunta. Qui nuova scherma di melliflue finzioni...".
E il frate morto ammazzato dai garibaldini - vien fatto di domandarsi - come si concilia con la cortesia e l'affabilità di questi suoi confratelli? E' davvero un mistero, che lascia perplessi e getta ombre di dubbio sulla triste vicenda.
Ma veniamo allo scontro. L' arrivo dei garibaldini a Farnese viene comunicato al signor De La Guiche, comandante della piazza di Valentano. E' la mattina dei 19 ottobre 1967. In tutta fretta, l'ufficiale ordina ai capitani Couësin e Sparacanna di assalire il paese occupato. Hanno a disposizione centodieci uomini, fra zuavi e militi di varie armi.
Venuto a sapere che i garibaldini sono aumentati di numero (trecento), essendo stati raggiunti dai livornesi e dai grossetani, Sparacanna spedisce una staffetta a Valentano per chiedere rinforzi. Ma intanto i suoi uomini spezzano gli avamposti degli insorti e si asserragliano nella villa Lucattini situata fuori dell'abitato, sulla strada che conduce a Ischia di Castro, in attesa dei soccorsi.
Al piano terra si dispongono gli zuavi dei sottotenente Emanuele Dufournel, al primo piano i soldati dei capitano Sparacanna.
Fuori, al riparo di un pagliaio, stanno allerta i gendarmi del sergente Poli.
Jacopo Sgarallino accorre sul posto con un buon numero di patrioti e scatena un furioso assalto all'edificio. Impaziente di combattere, o forse timoroso di non

poter uscire vivo da quelle stanze, Dufournel corre allo scoperto, seguito dai suoi militi e ingaggia un aspro combattimento al grido di "Viva Pio IX!", "Vive le zouaves!". Ma cade presto trafitto de una gragnola di colpi.
Qualche storico afferma che viene anche sottoposto a un feroce pestaggio.
Dopo di lui perderanno la vita due papalini (un caporale e uno zuavo) e il venticinquenne massetano Ettore Comparini; Pasquale Sgarallino, fratello di Jacopo, subirà una grave ferita.
Al sopraggiungere delle forze di De La Guiche e di Couëssin, gli insorti cercano di allontanarsi dal campo di battaglia.
Non tutti, però, riusciranno a mettersi in salvo. Cadrà ucciso Natale Capannoli, diciotto anni, e sarà mortalmente ferito alla gola Rocco Grassini, trentadue anni, entrambi di Massa Marittima. Fra i garibaldini si conteranno altri cinque morti e altri tredici feriti.
Purtroppo, i volontari, anche per mancanza di adeguate armi e munizioni (ciascuno è dotato di un vecchio fucile ad avancarica e soltanto di otto cartucce, mentre gli zuavi dispongono di moderni "Chassepots" e di abbondanti proiettili) sono costretti ad abbandonate il campo e a rifugiarsi nel quartiere di Torre Alfina.
Rocco Grassini viene condotto all'ospedale di Pitigliano, poi trasferito a quello di Massa Marittima, dove cesserà di vivere il 5 novembre 1867.
Il sottotenente degli zuavi, Emanuele Dufournel, trasportato e Valentano, morirà l'indomani alle prime luci dell'alba, avendo riportato quindici gravissime, inguaribili ferite. Prima di spirare dirà: "Il mio sacrificio è compiuto. Muoio per la religione. Sono contento".
Dieci giorni più tardi anche suo fratello, Deodato Dufournel, capitano degli zuavi, cade in combattimento lungo le vie di Viterbo. Entrambi saranno sepolti al Verano, dove questa scritta li ricorda: "Martyres Christi excipite/Adeodatum et Emmanuelem Dufournel/qui in hoc cubicolo dormiunt".
A Farnese, sulla facciata della ex villa Lucattini, che all'epoca del conflitto era una normale casa di campagna, si possono leggere due lapidi. Una, prolissa e retorica (sedici righe) dettata da Francesco Domenico Guerrazzi in ricordo dei caduti massetani; l'altra semplice, concisa, in memoria dei Dufournel. Quest'ultima, tradotta dal francese, così semplicemente si esprime: "Qui cadde colpito da 15 ferite il 19 ottobre 1867 Emanuele Dufournel sottotenente del reggimento degli Zuavi Pontifici".

    Si ringrazia l' Associazione Alfio Cavoli di Manciano per il testo