di
Antonio Biagini

La banda del Lamone

Domenico Tiburzi (1836 - 1896)

Atto di morte di David Biscarini

L

a cronaca che entra nelle nostre case all'ora di cena ci offre ogni giorno il triste spettacolo di intere zone della nostra Italia fuori dal pieno controllo della legge ed assoggettate, invece, al potere di criminali che con la sopraffazione e la violenza impongono il loro interesse personale.
La sociologia, l'economia e le tante altre categorie della nostra multidisciplinare cultura si affannano a ricercare le origini prime del fenomeno che forse, più semplicemente, vanno ricercate nell'eterna sete di sopraffazione che l'uomo, "lupo dell'uomo", esprime in forme diverse, più o meno moderne, più o meno immediatamente percepibili ma manifestando comunque, nella sostanza, sempre la stessa sete.
Mafia, camorra ed altre consorterie malavitose sono oggi realtà lontane dalle nostre case, ma non fu sempre così.
Sul finire del XIX secolo, negli anni immediatamente successivi all'unificazione di un'Italia che ancora doveva fare gli italiani (con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti!), in questo territorio aspro ancora oggi, nacque e prosperò il fenomeno del brigantaggio.
Già negli anni del dominio papalino queste terre di confine furono restie al rispetto della legge e una parte importante della popolazione rimediava alla profonda ed atavica miseria con l'esercizio del contrabbando.
Alla dogana pontificia del Voltone, a quella di Capalbio ed a quella di Trevinano, i finanzieri spesso facevano finta di non vedere i traffici che si svolgevano: sequestravano piccole quantità di merce e a volte lucravano su queste attività.
Di lì a pochi anni i canali del contrabbando sarebbero stati un importante veicolo di diffusione della stampa e della propaganda risorgimentale, liberale ed antipapalina, che si sarebbe principalmente espressa nei nostri paesi con l'attività della Lega Castrense.
La Santa Sede, da Roma guardava al fenomeno del contrabbando quasi con rassegnatezza, ed un magistrato papalino scriveva alla sua tesoreria nel 1830, a proposito delle iniziative da prendere per reprimere le attività illecite intorno a Farnese e permettere la riscossione del dazio:
"Tutto potrà servire per reprimere in parte i contrabbandi ma vi assicuro

che anche i gatti, in queste contrade, sono contrabbandieri e manutengoli".
Quelli che, per timore di Dio o della legge, cercavano una esistenza lecita, erano invece impegnati a condurre una vita miserabile che nel migliore dei casi si chiudeva attorno ai sessant'anni, sempre che non si fosse fatalmente rientrati in quel 28 per cento che moriva nel primo anno di vita o in quello altrettanto numeroso che non veniva risparmiato dalla malaria e dalle altre malattie endemiche. L'analfabetismo era la regola e l'unica possibilità restava il lavoro nei campi come braccianti al soldo dell'aristocrazia romana, proprietaria di gran parte delle terre di Maremma.
E' in questo scenario di profondo degrado che dobbiamo inquadrare l'attività dei briganti: mafiosi e camorristi di quei tempi; uomini lontani da ogni sfumatura romantica o connotazione eroica.
Alcuni di questi riempirono delle loro gesta le cronache farnesane di fine '800 andando a costituire quella che fu detta "la banda del Lamone" per il facile rifugio che trovarono in questa selva impenetrabile e nei vicini boschi che, seguendo il corso del fiume Fiora e ricoprendo i monti di Castro, senza soluzione di continuità sono collegati con le macchie di Montauto e della Maremma.
La banda si costituì negli anni intorno al 1870, quando il cellerese Domenico Tiburzi (Domenichino) unì il suo destino a quello dei farnesani Domenico Biagini (Il Curato) e Giuseppe Basili (Basilietto).
A questi si aggiunsero Davide Biscarini (Biscarino), nativo di Marciano in provincia di Perugia, e Vincenzo Pastorini (Cenciarèllo), viterbese residente a Latera.
Tutti avevano molti conti aperti con la giustizia per un passato carico di gravi reati.
In particolare Biagini e Tiburzi erano evasi anni prima dal bagno penale di Corneto (Tarquinia) e Biscarini si era dato alla macchia perché accusato di un omicidio ad Orvieto.
Fu proprio Biscarini il capo riconosciuto, fino a quando il 12 dicembre 1877 la banda fu sorpresa dai reali carabinieri in una grotta lungo le sponde del Paternale, uno stretto fosso affluente del Fiora.
Nello scontro a fuoco che seguì rimase ucciso il capobanda mentre gli altri riuscirono a scappare, con Tiburzi ingloriosamente costretto alla

fuga in mutande.
Il Biscarini fu sepolto a Farnese dove, alcuni giorni dopo la sepoltura, per ordine del procuratore del re fu di nuovo dissepolto, rivestito e fotografato quando animali selvatici lo avevano già sfigurato.
Restò Domenichino alla guida dei malviventi.
Come spesso accade negli ambienti criminali, i primi a fare le spese della propria violenza sono proprio i suoi affiliati, e questo capitò anche al Pastorini il 25 marzo 1879.
Avvenne che i quattro banditi, dopo aver incassato e spartito il riscatto per la liberazione del possidente di Ischia di Castro Francesco Majoli, si recassero a festeggiare in una casupola sui monti di Castro in località Santa Barbara, ospiti di una famiglia ove le due ragazze che lì vivevano erano solite concedere ai banditi le loro grazie, venendo per questo generosamente ricompensate.
Dopo abbondanti libagioni, quando ormai il vino aveva espletato il suo effetto, Cenciarèllo ebbe la sciagurata idea di rievocare pubblicamente l'ingloriosa fuga in mutande dei suo capo il quale, sentendosi deriso ed umiliato di fronte alle ragazze, rispose insultando pesantemente il compare.
Questi avventatamente lo sfidò a duello ed i due uscirono sull'aia per dirimere la questione.
Ebbe la peggio il Pastorini, che ricevette un colpo di revolver in mezzo alla fronte.
Fu sepolto nei pressi della casa anzidetta, ma la notizia della sua morte solo molto tempo dopo cominciò a circolare a Farnese.
Se ne ebbe la certezza nel settembre successivo grazie alla testimonianza resa da uno dei presenti.
Solo allora la forza pubblica individuò la sepoltura e, riesumato il cadavere, lo trasportò nel cimitero di Farnese.
Il 14 luglio dello stesso anno Basilietto, che a dispetto del nomignolo aveva un fisico imponente ed una gran forza, fu eliminato nel sonno dal Biagini che gli sparò mentre dormiva nella macchia di Cerreta Piana.
Due colpi sparati a bruciapelo gli devastarono la testa ed un fianco.
I suoi modi, troppo irruenti nei confronti dei taglieggiati, rischiavano di rovinare la piazza e compromettere il clima di omertà della popolazione.
Addosso al cadavere fu rinvenuto dal magistrato un curioso biglietto con la curiosa scritta: "Giuseppe Basili, nemico dei mercanti".
Anche lui come Biscarini e Pastorini fu sepolto nel

cimitero vecchio di Farnese.
Dei loro corpi mortali si può dire solo che furono sepolti, non già che trovarono una requiem aeternam.
Le spoglie subirono le vicissitudini che abbiamo detto e quel cimitero fu abbandonato alla fine del secolo e finì smantellato ed invaso dai rovi.
Tiburzi e Biagini continuarono ancora per molti anni la loro sciagurata esistenza.
Il curato terminò la sua carriera alla veneranda età di 67 anni il 6 agosto 1889, quando in territorio di Manciano fu sorpreso e, secondo la versione ufficiale, colpito dai moschetti dei carabinieri.
Si disse anche fosse stato stroncato nella fuga da un colpo apoplettico e che solo da morto fu colpito dai militi che così intendevano vantare maggiori meriti.
La latitanza di Tiburzi terminò solo il 23 ottobre 1896 in un casale dalle parti di Capalbio, in località le Forane, dove in una notte di tempesta si rifugiò presso una famiglia conosciuta, in compagnia del latitante Luciano Fioravanti cui da tempo si era associato.
La forza pubblica si era ormai meglio organizzata, i due erano ormai braccati e forse ci fu anche la spiata giusta.
Alle tre di notte, quando ormai aveva smesso di piovere ed i due si apprestarono a lasciare il casale, il cane di guardia abbaiò segnalando la presenza di qualcuno di fuori.
Il più giovane ed agile Fioravanti riuscì a dileguarsi nel buio, Tiburzi sull'uscio scaricò i due colpi dell'arma che impugnava ma i carabinieri riuscirono a colpirlo e ad ucciderlo.
A sessanta anni finiva la vita sciagurata del Re di Montauto.
Il giorno dopo, in perfetta tenuta da brigante, il suo cadavere fu legato ad una colonna, nel cimitero di Capalbio, per essere immortalato ed entrare definitivamente nella storia...
Di certo dalla porta sbagliata.

Pubblicato su "La Loggetta" notiziario di Piansano e la Tuscia", n. 1 gennaio/febbraio 2005